I mega-allevamenti super-intensivi di maiali, diffusi in tutto il mondo e spesso nelle mani delle grandi multinazionali del cibo, rappresentano un problema da molti punti di vista. Non solo segnano la fine delle aziende agricole a conduzione familiare, ma hanno anche un enorme impatto ambientale, implicazioni di benessere animale e una minore qualità delle carni, invadendo il mercato con prodotti a basso costo che fanno concorrenza sleale ai veri allevatori.
A fare il punto della situazione ci ha pensato la giornalista inglese Tracy Worcester che, nel suo documentario Pig business, è andata a ritroso nelle filiere suinicole di vari paesi del mondo, arrivando ad una conclusione: recuperare filiere corte, farmers’ markets e metodi produttivi più rispettosi dell’uomo ma anche degli animali e dell’ambiente.
Non si possono trattare gli animali, e la materia vivente in genere, come fossero macchine. Gli allevamenti super-intensivi sono nati negli Stati Uniti, in piena fase agroindustriale, adattando al cibo il modello di produzione automobilistico. Ma applicare a organismi viventi le stesse regole che si utilizzano per fare bulloni è quantomeno pericoloso.
Purtroppo le etichette delle carni spesso non sono trasparenti: non si conoscono né l’origine, né le condizioni di allevamento. Ma l’ondata di carne a basso costo ha ormai preso piede e i consumatori vanno rieducati ad un uso più responsabile degli alimenti di origine animale: meglio mangiarne magari di meno, ma di qualità maggiore.
Per avere carne in quantità industriali e a basso costo, bisogna comprimere sia gli spazi (con conseguenze per benessere animale, uso di antibiotici e forte impatto ambientale) che i tempi produttivi, con razioni esagerate e senza una crescita sana. Oggi, il 70% degli antibiotici somministrati negli Usa è dato ad animali non malati, per impedire infezioni e garantire una crescita più veloce.
5 Luglio 2011
Contro i mega-allevamenti industriali servono filiere corte e qualità